Nel grembo d’ombra

La nebbia mi accolse come una madre gelida eppure familiare. Il silenzio era un sipario
pesante, e l’aria odorava di tempo immobile. Le anime fluttuavano leggere come pensieri in una
mente insonne. E tra mille sguardi senza occhi, in mezzo alle ombre tremolanti dell’Ade, una
figura si staccò dal grigio e prese forma: era mia nonna – non la vecchia curva e fragile dei miei
ultimi inverni, ma un’apparizione di luce tenue, coperta da una bruma di nostalgia –, seduta su
una roccia di velo, le mani intrecciate come preghiere dimenticate.
Mi avvicinai, tremando non di paura, ma per l’avvenuto riconoscimento. In quel luogo senza
tempo, chiesi ciò che il cuore tiene sigillato quando la vita è troppo rumorosa per ascoltarsi:
“Dove sei, nonna, quando non ti sogno?”. La sua voce come vento tra le foglie pronunciò parole
che sapevano di crepuscolo: “Mia dolce Elena, io sono nel pensiero che ti sfiora senza
preavviso, nella canzone che intoni senza volerlo e nel silenzio tra due battiti lontani. L’aldilà
non ha una geografia, ma solo memoria!”
Io, incuriosita, le chiesi: “Ma esiste un Dio, laggiù oltre questo buio cupo? Cosa c’è davvero
dopo la morte?” Lei mi rispose: “Un’eco. Un ricordo che cammina scalzo nella memoria altrui.
Se Dio fosse un volto, non lo vedremmo mai. È come un vento che attraversa ogni cosa.” Poi lei
abbassò lo sguardo, come chi parla a una preghiera e continuò: “Dio è una domanda che si fa
carne in ogni essere che ama. E ogni anima che ha amato… lo ha sfiorato. Qui le domande non
si risolvono: si dissolvono, come nebbia al sole. L’infinito non risponde: accoglie.”
Io replicai: “Ma allore esiste un senso? Un disegno dietro le cose, dietro il dolore?”
“Il dolore – disse – è un artista cieco che dipinge le anime. Il senso? Spetta a te trovarlo. Anche
qui, tra queste ombre, ognuno porta ancora il suo filo da seguire, come Arianna fece con
Teseo.”
Domandai allora del tempo, se anche lì corre veloce oppure si ferma. “Il tempo – spiegò –, è un
vestito che ci si toglie quando si varcano i confini dell’Ade, dove tutto è un eterno presente,
come in un sogno da cui non ci si sveglia.
Volevo sapere se la morte le avesse fatto male e per questo le sussurrai: “Cos’hai provato
quando te ne sei andata via da noi? Hai sofferto?”. Ma lei mi disse: “Il dolore è solo per voi, i
rimasti. È come partire su una nave e guardare il porto che si allontana. Ma poi il mare canta e
si impara a galleggiare nella luce dell’oltre!”
A quel punto le confessai la mia paura. “La morte mi spaventa”, – ammisi. “È normale, mia
cara – replicò –; anche la farfalla teme il bozzolo, non sapendo che lì dentro si costruisce l’ala.
La morte è solo il verbo al passato del dolore.”
Infine, chiesi se ci saremmo riviste. Lei sorrise: Quando smetterai di chiedere, mi
riconoscerai. Sarò un albero, una stella, una risata tra amici, il suono dei ferri da maglia nelle
sere d’autunno. E mi vedrai, senza sapere come!”. Le lacrime mi sgorgarono, ma nel regno dei
morti le lacrime non scendono: si trasformano in luce.
L’ultima domanda la serbavo nel petto come una moneta da barattare con la saggezza:
“Cosa devo fare, finché sono viva?”. “Ama”, – mi disse – ama come il sole ama la terra, senza
aspettarti nulla. Ogni gesto d’amore resta impigliato qui, come luce in una rete d’ombre!”.
Poi la visione si sciolse. Rimasi sola, ma mai così piena. L’Ade aveva lasciato in me l’eco di
una risposta che non cercava più parole.
Elena Ciuffoli I R
